In presenza di un ciclo economico di crisi è importante che lo Stato torni ad occupare un ruolo propulsivo dello sviluppo industriale anche con l’obbiettivo di colmare il gap esistente tra le diverse aree del Paese e tutelare l’occupazione. Ecco come nell’analisi di Vincenzo Sanasi d’Arpe, professore di diritto dell’Economia.
Per una adeguata visione d’insieme sull’intervento dello Stato nell’economia, è fondamentale tracciare un profilo ricostruttivo del quadro precedente all’attuale anche perché, come diceva un grande studioso della materia “le cose nuove non si capiscono se non si pongono a confronto con le vecchie”.
A seguito della crisi finanziaria del 1929, cristallizzata dal crollo del mercato azionario statunitense e che portò, negli Stati Uniti, alla creazione delle prime authorities di settore onde realizzare un’attività di regolazione e vigilanza, in Italia fu costituito, nel 1933, l’Istituto per la ricostruzione industriale, dapprima come ente provvisorio, poi, nel 1937, come ente definitivo.
L’Iri venne istituito per il “salvataggio” delle imprese, sia industriali che creditizie, in crisi, onde evitare che si realizzasse una situazione simile a quella americana: chiusura delle aziende, perdita dei posti di lavoro e le stesse banche (doppiamente esposte in quanto al tempo stesso azioniste e finanziatrici delle aziende in crisi) non più in grado di restituire quanto dovuto ai risparmiatori.
Iniziano, in parte, ad affermarsi, in quel contesto, le teorie di J. M. Keynes, padre della macroeconomia, fautore dell’intervento dello Stato nel mercato, in particolare nelle fasi di crisi del ciclo economico, sull’assunto che il mercato, di per sé, non creasse un circuito virtuoso e “perfetto”. Sostenitore, pertanto, di un sistema ad economia “mista”, per un modello capitalista che avesse nello Stato un agente per la tutela dell’interesse collettivo, in contrapposizione rispetto alla teoria economica neoclassica.
Dopo l’Iri, nel 1953, venne istituito l’Eni (Ente nazionale idrocarburi,) configurato, al pari dell’Iri, come ente pubblico economico con partecipazioni in società per azioni, per la gestione, in regime di esclusiva, della ricerca e della coltivazione dei giacimenti di idrocarburi liquidi e gassosi scoperti, agli inizi degli anni ’50, nella Valle Padana.
Con legge del 22 dicembre del 1956, venne istituito il ministero delle Partecipazioni Statali dal quale dipendevano gli enti pubblici economici di gestione delle partecipazioni azionarie dello Stato. Con l’istituzione di questo ministero si sancì il principio che lo Stato non potesse essere azionista diretto: le azioni in proprietà diretta dello Stato vennero infatti attribuite agli enti di gestione, a loro volta sottoposti al controllo dello Stato. Il numero degli enti di gestione venne progressivamente ampliato, con la istituzione dell’Efim (ente per il finanziamento dell’industria manifatturiera) dell’Eagc (ente autonomo gestione cinema, dell’Eagat (ente autonomo gestione aziende termali) dell’Egam (ente per la gestione delle aziende minerarie).
È opportuno, a questo punto, un breve cenno sul c.d. Stato finanziatore. Il finanziamento statale rappresenta, infatti, un elemento peculiare della storia economica degli anni ’60. Negli anni ’60 e fino agli anni ’70, infatti, si sono sviluppate diverse forme di ausili finanziari pubblici ai privati, dal contributo a fondo perduto al c.d. premio, erogato, a differenza del precedente, non ex ante ma ex post, quando sia stato raggiunto l’obbiettivo o realizzato il servizio, fino al più complesso credito agevolato. A partire dal 1990, si afferma un nuovo indirizzo, sotto la fortissima pressione della finanza pubblica, della legislazione Europea, per ricondurre a dimensioni più limitate le imprese pubbliche, anche a ragione di episodi patologici e disfunzioni, talvolta gravi, di alcune tra queste, e last but not least, dell’interesse dei grandi centri di potere finanziario internazionali e nazionali. Si arriva, quindi, alle privatizzazioni. Credo abbiano relativamente inciso sul deficit di finanza pubblica. Su questi risultati è interessante leggere la relazione della Corte dei Conti del 2010.
In ogni caso ed in disparte dall’opportunità o meno, di procedere alla privatizzazione sostanziale di determinate aziende, su tutte Stet-Telecom, allora gigante delle telecomunicazioni sul piano internazionale, gioiello dell’Iri ed azienda strategica per le prospettive di sviluppo legate all’evoluzione tecnologica nel mondo delle telecomunicazioni, ciò che è stato aspramente dibattuto, discusso e discutibile è il modello di dismissione (liquidazione) del patrimonio industriale pubblico. Superate le cessioni di rami dell’Eni, il 70% circa del capitale azionario, ventiduesima azienda nel mondo per fatturato, di Stet-Telecom e di Autostrade, è espressiva, a questo proposito, una cessione meno nota ma non meno significativa, ovverosia la privatizzazione sostanziale di Seat-Pagine Gialle. In estrema sintesi: scissa da Stet per essere conferita al ministero del Tesoro prima della privatizzazione di Telecom Italia, e dal Tesoro messa in vendita tramite procedura competitiva, nel 1997, con la consulenza dell’allora Lehman Brothers, la privatizzazione di Seat ebbe luogo nell’anno successivo con la tecnica del leveraged buy-out.
Modalità di compravendita, vietata, all’epoca, dall’art. 2358 del codice civile che proibiva di accordare prestiti o concedere finanziamenti per l’acquisto di azioni proprie. Seat-Pagine Gialle fu acquisita tramite la società-veicolo Ottobi posseduta da Otto S.p.A., i cui otto azionisti, a parte Banca Commerciale Italiana e De Agostini S.p.A., erano rappresentati da fondi chiusi e società di diritto estero domiciliate in diversi Stati i cui ordinamenti prevedevano una bassissima tassazione. L’acquisizione di Seat si realizzò sull’equivalente di 856 milioni di euro (per la gran parte, appunto, a debito) per essere successivamente ceduta a Telecom Italia per l’equivalente di 7, 4 miliardi di euro.
In disparte da taluni particolari casi che pure inevitabilmente hanno caratterizzato l’epoca delle privatizzazioni a favore di un diverso assetto del rapporto tra Stato ed economia, non è, oggi, pensabile, per diversi ordini di motivi, il ritorno ad un sistema, quello cd delle partecipazioni statali che, elogiato all’epoca dalla comunità internazionale per la sua configurazione tecnico – giuridica, ha significato lo sviluppo ed il rilancio economico- industriale ed occupazionale del Paese.
Credo, però che, specialmente in presenza di un ciclo economico di crisi sia importante che lo Stato torni ad occupare un ruolo propulsivo dello sviluppo industriale anche con l’obbiettivo (che costituiva la ratio dell’intervento diretto nell’economia, c.d. Stato imprenditore) di colmare il gap esistente tra le diverse aree del Paese e tutelare l’occupazione. Questo passa, inevitabilmente, dal dotarsi di una politica industriale e dal presidio e rafforzamento dei settori strategici dell’economia. Gli istituti giuridici e le conseguenti configurazioni sono svariati ma ritengo auspicabile, in ogni caso, per il superamento della crisi ed il successivo rilancio, una partnership tra pubblico e privato. Dipenderà poi, in definitiva, dagli uomini chiamati a gestire i processi.
Ci accingiamo a vivere un’epoca nella quale competenza, capacità e formazione saranno fondamentali ma questo, seppur strettamente correlato, è un altro tema…
Articolo pubblicato su formiche.net